Pillola di Lavoro n. 23
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07 Giugno 2021

Pillola di Lavoro n. 23

di MDA
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La reintegrazione ex art. 18, comma 4, L. 300/1970: una tutela che rischia di diventare sempre meno eccezionale

L’ordinanza n. 12932 del 2021 della sesta sezione della Corte di Cassazione è un provvedimento interlocutorio a seguito del quale è stata disposta la trasmissione del procedimento alla Sezione Quarta Lavoro, evidenziando il rilievo paradigmatico – e, quindi, valore nomofilattico – della decisione per una ulteriore riflessione sulla portata precettiva dell’art. 18, commi 4 e 5, L. 300/1970, come modificato dalla L. 92/2012.
L’ordinanza in parola, dunque, pur essendo un provvedimento endoprocedimentale e non avendo, quindi, deciso nulla, desta comunque particolare interesse poiché, in relazione al caso oggetto di giudizio, ha sollevato alcuni rilievi critici verso l’orientamento, allo stato prevalente, della giurisprudenza di legittimità in ordine all’interpretazione ed applicazione della tutela reintegratoria di cui all’art. 18, comma 4, L. 300/1970 (in particolare ove prevede la tutela reintegratoria quando “il fatto rientra tra le condotte punibili con sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili”), suggerendo una revisione dello stesso che, ove accolta, avrebbe come effetto non solo una più estesa applicazione di tale regime sanzionatorio ma anche, inevitabilmente, una minor possibilità di individuare ex ante le ipotesi in relazione alle quali la reintegrazione potrebbe essere applicata.
Ma andiamo con ordine.

Oggetto del procedimento nell’ambito del quale è stata pronunciata l’ordinanza in esame è la decisione con la quale la Corte d’Appello di Trieste, accertato lo scarso rilievo disciplinare dei fatti posti alla base del licenziamento per giusta causa impugnato, ha dichiarato l’illegittimità dello stesso applicando il regime indennitario di cui all’art. 18, comma 5, sostenendo in motivazione la non applicabilità della tutela reintegratoria ex art. 18, comma 4, in considerazione, da un lato, delle previsioni del tutto generiche ed indefinite del CCNL e, d’altra parte, della consolidata giurisprudenza di legittimità circa l’applicabilità del comma 4 dell’art. 18 solo ove il fatto contestato ed accertato sia espressamente contemplato da una fonte negoziale vincolante per il datore che tipizzi in modo puntuale il fatto come punibile con sanzione conservativa: solo in questo caso, infatti, al giudice non sarebbe demandato alcun autonomo sindacato di proporzionalità sulla sanzione irrogata, dovendosi egli limitare alla mera sussunzione della fattispecie concreta nella previsione contrattualcollettiva.

Il caso all’esame, dunque, a ben vedere, poteva essere agevolmente risolto confermando la sentenza oggetto di gravame e, con essa, l’orientamento giurisprudenziale negli ultimi anni consolidatosi, in base al quale la S.C., prendendo le mosse dalla argomentazione di fondo del carattere eccezionale e residuale della tutela reintegratoria nell’ambito dell’art. 18 novellato, ha via via sostenuto con diverse recenti decisioni che:
– ai fini della sussumibilità della condotta contestata al lavoratore in ipotesi punite con sanzioni meramente conservative, e conseguente applicazione della tutela reintegratoria, è necessaria la perfetta identità del comportamento posto in essere dal dipendente con la previsione contrattuale: non può quindi essere applicato l’art. 18, comma 4, in relazione ad una clausola generica che si limiti a prevedere la punibilità con sanzione conservativa per la violazione di generici doveri di comportamento da parte del dipendente
– l’applicazione dell’art. 18, co. 4, L. 300/1970 resta comunque preclusa ove il contratto collettivo o codice disciplinare facciano salva, per i casi di maggiore gravità, la possibilità di applicare una sanzione espulsiva
– ai fini dell’applicazione dell’art. 18, comma 4, non è mai consentita l’interpretazione analogica ed estensiva delle clausole contrattuali riguardanti l’applicazione di sanzioni conservative, a meno che esse non appaiano inadeguate per difetto dell’espressione letterale rispetto alla volontà delle parti sociali contraenti: non è possibile applicare la tutela reintegratoria ex art. 18, comma 4, operando una estensione delle fattispecie punite con sanzione conservativa sul presupposto del ritenuto pari disvalore disciplinare del fatto.

Con l’ordinanza in esame, la sezione sesta della S.C., dopo aver ricostruito l’orientamento dominante in relazione all’interpretazione ed applicazione dell’art. 18, comma 4, ha sollevato una serie di rilievi critici in ordine allo stesso, suggerendo una sua revisione.
In particolare, l’orientamento giurisprudenziale attuale viene contestato per quanto riguarda la conclusione della non applicabilità dell’art. 18, comma 4, nei casi in cui le condotte punibili con sanzioni conservative siano formulate attraverso clausole generali: sostiene infatti la sesta sezione che, anche in questo caso così come in presenza di clausole che tipizzino specifiche condotte, il Giudice sarebbe chiamato ad un’attività ermeneutica sulle clausole contrattuali e, quindi, alla mera sussunzione della condotta contestata al lavoratore nella previsione contrattuale, senza sconfinare nel giudizio di proporzionalità demandato alle parti sociali tra il fatto e la sanzione applicata.
Inoltre, l’ordinanza in esame solleva più ampi dubbi sulla compatibilità dell’illustrato orientamento prevalente – che, come accennato, ammette l’applicazione della reintegrazione ex comma 4 dell’art. 18 solo ove i fatti contestati siano espressamente tipizzati da specifiche clausole contrattuali che ne prevedano la punibilità esclusivamente con sanzione conservativa, escludendo la possibilità per il giudice di utilizzare le clausole generali e di ricorrere all’interpretazione analogica ed estensiva – con i principi costituzionali di ragionevolezza e uguaglianza: afferma infatti sul punto la sesta sezione che la tipizzazione contenuta nei contratti collettivi non è né esaustiva né pensata al fine di fungere da discrimen tra l’applicazione del comma 4 o 5 dell’art. 18, di talchè l’applicazione della reintegrazione ex comma 4 entro i ristretti limiti consentiti dall’orientamento attuale porterebbe ad una irrazionale disparità di trattamento tra le situazioni specificamente tipizzate e altre situazioni di pari (o anche minore) gravità.

Per concludere, sarà di estremo interesse verificare quali saranno gli sviluppi della giurisprudenza a seguito dell’ordinanza esaminata che, in ogni caso, di per sè e ancor più tenuto conto delle recenti pronunce della Corte Costituzionale sul tema, lascia intravedere un qualche mutamento di “sensibilità” in ordine all’applicazione della tutela reintegratoria a seguito delle riforme del regime sanzionatorio dei licenziamenti succedutesi dal 2012 in poi.
Infatti, ove le obiezioni all’orientamento attuale espresse dalla sesta sezione fossero nel prossimo futuro in qualche misura condivise, ammettendo in nome dei principi di ragionevolezza ed uguaglianza un più ampio margine (rimesso in buona sostanza al giudice) di applicazione dell’art. 18, comma 4, ciò che risulterebbe inevitabilmente sacrificato è la conoscibilità preventiva da parte del datore di lavoro dell’illegittimità del provvedimento espulsivo finalizzata a consentire di limitare l’applicazione dell’art. 18, comma 4, coerentemente con la ratio attualmente attribuita alla norma, ai soli casi di “abuso consapevole” della tutela reintegratoria.

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