Pillola di Lavoro n. 18
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21 Aprile 2021

Pillola di Lavoro n. 18

di MDA
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Ma ai dirigenti si applica il divieto di licenziamento o no?

Ha fatto molto scalpore alcune settimane  fa, l'(file:trib._roma-ord.26-02-2021.pdf text:ordinanza del Tribunale di Roma 26.2.2021) – Giudice Dr. Conte – che ha applicato il divieto di licenziamento, introdotto con l’art. 46 D.L. 23/2020 (c.d. Cura Italia), anche ai dirigenti.
Come è noto la norma era stata per lo più interpretata come applicabile alle categorie di operai, impiegati e quadri, atteso l’espresso richiamo all’art. 3, L. 604/66, contenuto nella citata norma,  sul presupposto che tale legge (L. 604/66) non è applicabile ai dirigenti per espressa indicazione contenuta nell’art. 10 di essa.
In base a ciò, la S.C. ha sempre ritenuto che, per la diversa natura del rapporto di lavoro dirigenziale, il potere di recesso  datoriale fosse fondato unicamente sull’art. 2118 c.c. e non  vi fosse la possibilità di applicare le disposizioni della L. 604/66 (applicabile invece a tutti gli altri lavoratori).
Tuttavia non poteva non notarsi la conseguente discrasia, circa l’applicazione del divieto di avviare o proseguire procedure per il licenziamento collettivo, che coinvolgono anche i dirigenti,  rispetto alla facoltà di risolvere il rapporto individuale del dirigente coinvolto in un licenziamento al di fuori del contesto collettivo.
Ma questo, si è detto, è un effetto della norma non il suo contenuto (che è chiaro e che, in base ai principi del nostro diritto, non può essere interpretato estensivamente o in via analogica).
D’altronde non vi è dubbio che il differente trattamento – tra licenziamento collettivo dei dirigenti vietato, e quello individuale, consentito – potrebbe essere ben giustificato dalla natura stessa del licenziamento collettivo, che, per la sua valenza sociale e per l’indubitabile  ricaduta anche in termini di allarme e di apprensione  generale, per le dimensioni e per il coinvolgimento di molti soggetti nello stesso arco temporale, crea effetti diversi sul tessuto economico  della comunità in cui accade.
Occorre quindi tener presente che un licenziamento collettivo può avere conseguenze ben più gravi sul piano sociale rispetto ad un licenziamento individuale (o comunque a licenziamenti intimati in numero esiguo).
Nel periodo precedente l’ordinanza romana vi sono stati molti casi di licenziamenti individuali di dirigenti, per lo più oggetto di transazione, tutti sfociati con la concessione della NASPI da parte dell’INPS.
L’ordinanza  del Tribunale di Roma ha invece ritenuto di estendere la portata del divieto, sia in ragione di un’interpretazione che si pretende essere costituzionalmente orientata sia perché la giustificatezza, in senso oggettivo, che deve essere sottesa al licenziamento dirigenziale, ha la stessa portata del giustificato motivo oggettivo, che riguarda l’attività produttiva e l’organizzazione del lavoro.
L’ordinanza ha sollevato subito molte critiche.
Tra esse, anche quella del Presidente della Sezione Lavoro della Corte di Cassazione il quale individua nel divieto una norma che tende a paralizzare il potere di recesso del datore di lavoro che si poggia sulla L. 604/66. Ma, nel caso del dirigente, il datore di lavoro non esercita i poteri indicati nella L. 604/66 ma, come detto, quelli previsti dall’art. 2118 c.c.
Questa interpretazione pare coerente con il sistema – che, diversamente, scaricherebbe sul datore di lavoro l’intero costo del dirigente che non può essere licenziato né può godere degli ammortizzatori sociali – ed è alla base della recentissima (file:sentenza-3605-2021.pdf text:sentenza del Tribunale di Roma) 19.4.2021 – Giudice dott. Pagliarini – che ha rigettato l’eccezione di nullità del licenziamento per i dirigenti.
Per loro non vi è corrispondenza tra divieto di licenziamento e possibilità di accedere agli ammortizzatori sociali, cosicché, in assenza di questa non può sussistere neppure quello.
Trova così accoglimento la interpretazione più corretta di una norma che non può essere interpretata estensivamente e che, diversamente, imporrebbe al datore di lavoro, tutti i costi conseguenti ad una scelta imposta da una norma pubblica.

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