Job Act: Disciplina Reintegratoria nel Licenziamento Disciplinare
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04 Ottobre 2020

Job Act: Disciplina Reintegratoria nel Licenziamento Disciplinare

di MDA
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Jobs Act: si allargano le maglie della tutela reintegratoria?

Con la Sentenza n. 12174 dell’8 maggio 2019, la Corte di Cassazione si è pronunciata per la prima volta sulla disciplina di cui all’art. 3, c. 2, D.Lgs. 23/15 – c.d. Job Act –, intervenendo in ordine ai presupposti di applicazione della (residuale) tutela reintegratoria nelle ipotesi di licenziamento disciplinare.

Nel caso di specie, una lavoratrice era stata licenziata per aver abbandonato il posto di lavoro: sia il Giudice di primo grado che la Corte d’Appello adita, pur avendo ritenuto illegittimo il licenziamento, avevano escluso il diritto della lavoratrice alla reintegra, sulla scorta del rilievo per cui doveva ritenersi che il fatto contestato fosse sussistente, per non essere stato negato nella realtà storica, ma non fosse di gravità tale da giustificare il recesso del datore di lavoro.

La Corte di Cassazione affronta la questione dell’interpretazione del c. 2 dell’art. 3 in esame, a norma del quale «esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato la lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento, il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro ed al pagamento di un’indennità risarcitoria …», ponendo a confronto la lettera della norma in esame con quella dell’art. 18 St.Lav., nel testo modificato dalla legge Fornero, in cui il diritto alla reintegra del lavoratore è parimenti collegato all’insussistenza del «fatto contestato» (ma senza la qualificazione di «materiale»).

La Cassazione rileva che con l’entrata in vigore del Job Act si è riacceso il dibattito, già sviluppatosi con le modifiche apportate all’art. 18 St. Lav. dalla Legge Fornero, fra i fautori della tesi del “fatto materiale”, in base alla quale la reintegrazione va disposta solo nel caso di insussistenza del fatto inteso come realtà fenomenica (il fatto non si è verificato o il lavoratore non lo ha commesso) ed i sostenitori della tesi del “fatto giuridico”, secondo cui la reintegrazione va disposta anche quando il fatto contestato, seppur verificatosi, non ha rilievo disciplinare o non è imputabile al lavoratore.

Nonostante il Job Act specifichi che il fatto contestato di cui rileva la sussistenza è quello «materiale», non vi è dubbio, secondo la Corte, che anche l’art. 3, c. 2, del medesimo testo di legge debba essere interpretato alla luce dell’orientamento già invalso nella giurisprudenza di legittimità con riferimento all’art. 18 St. Lav. post Riforma Fornero, perché al fatto accaduto ma disciplinarmente irrilevante non può essere riservato un trattamento diverso da quello previsto per le ipotesi in cui il fatto non sia stato commesso.

La Suprema Corte, quindi, ha cassato la sentenza della Corte d’Appello per non aver valutato se il fatto addebitato alla lavoratrice, e da questa ammesso, fosse anche apprezzabile sul piano disciplinare «tanto da un punto di vista oggettivo che soggettivo ovvero di imputabilità della stessa lavoratrice».

Se le argomentazioni della Corte risultano logiche, le conclusioni tratte appaiono stridenti, atteso che, nella fattispecie, l’abbandono del posto di lavoro è condotta indubbiamente rilevante sotto il profilo disciplinare: se il Giudice ha margine di valutazione discrezionale in ordine al rilievo disciplinare della condotta, in rapporto a fattori “esterni”, oggettivi (ad es., forza maggiore, tenuità del danno) o soggettivi (ad es., grado della colpa, attenuanti), significa che egli ha margine per operare (giocoforza, anche solo tendenzialmente) una valutazione in ordine alla proporzionalità della sanzione espulsiva irrogata ai fini dell’applicazione della tutela reintegratoria, al di là del divieto espresso dall’art. 3, c. 2, D.lgs. 23/15, con conseguente neutralizzazione della volontà del legislatore del Jobs Act di superare la Legge Fornero e di rendere certa la sanzione (economica) applicabile in caso di licenziamento illegittimo, rispetto a cui la reintegra rappresenta un’eccezione.

Una tendenza, questa, che appare oggi marcata, dopo che la sentenza n. 194/18 della Corte Costituzionale ha scardinato il sistema della “tutele crescenti” reintroducendo la piena discrezionalità del giudice nella determinazione dell’ammontare dell’indennità risarcitoria e dopo che il cd. Decreto Dignità ne ha allargato la forbice fino a 36 mensilità, ben oltre i limiti previsti dalla Legge Fornero.

Nella Sentenza in esame la Corte di Cassazione richiama il precedente di cui alla Sentenza n. 20545 del 13 ottobre 2015, pronunciata in riferimento alla Legge Fornero ma “estensibile” al Job Act, secondo cui «ogniqualvolta il fatto contestato presupponga anche un elemento non materiale (come la gravità del danno) allora tale elemento diventa anch’esso parte integrante del “fatto materiale” come tale soggetto ad accertamento, sicchè anche in tale ipotesi l’eventuale carenza determina la tutela reintegratoria»: ad avviso di chi scrive questa sentenza è significativa in rapporto al rischio di sovrapposizione fra giudizio sulla sussistenza del fatto e giudizio sulla proporzionalità della sanzione, atteso che la “gravità del danno” non è mai un criterio oggettivo.

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