Conciliazioni sindacali: rinunce impugnabili senza normativa
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04 Ottobre 2020

Conciliazioni sindacali: rinunce impugnabili senza normativa

di MDA
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Che tenuta hanno le conciliazioni in sede sindacale? Quali alternative sono possibili?

Ha fatto molto scalpore tra gli addetti ai lavori la sentenza del Trib. Roma 8 maggio 2019, n. 4354 pubblicata anche su Il Sole24ore (17.5.2019) che ha stabilito come le rinunce firmate dai lavoratori in sede sindacale sono impugnabili (nel termine ordinario di sei mesi) se il contratto collettivo di riferimento non disciplina l’istituto della conciliazione. Le conciliazioni sono, altresì, impugnabili se il rappresentante sindacale che sottoscrive il verbale non fornisce effettiva assistenza al lavoratore, spiegando in maniera approfondita le conseguenze delle rinunce.

C’è da dire che non stupisce la seconda parte, che costituisce un punto fermo della giurisprudenza anche di Cassazione.

Il sindacalista che assiste il lavoratore deve essere di sua fiducia (questi deve cioè essere iscritto ovvero conferire spontaneamente mandato ad assisterlo) e deve svolgere una parte attiva nella fase della trattativa e comunque nella fase della sottoscrizione dell’accordo.

Ciò, in ottemperanza al principio per cui il lavoratore (in quanto parte debole del rapporto), nel rinunciare definitivamente ai propri diritti e alle proprie pretese, debba essere adeguatamente ed effettivamente assistito dalle organizzazioni sindacali o altri organi terzi che garantiscano una reale consapevolezza della portata delle sue decisioni. Spesso capita di sentire qualcuno che dice: “il sindacalista te lo trovo io”. In questi casi è bene sapere che l’accordo potrebbe essere impugnato nel termine semestrale. Il sindacalista non è di fiducia del lavoratore e, per esperienza, non si adopererà per modificare condizioni e regole già previste né per far comprendere correttamente il significato delle singole pattuizioni.

Come noto, la ratio dell’art. 412 ter c.p.c. è quella di assicurare, anche attraverso l’individuazione della sede e delle modalità procedurali, la pienezza di tutela del lavoratore in considerazione dell’incidenza che ha la conciliazione sindacale sui suoi diritti inderogabili ed in ragione dell’inoppugnabilità della stessa. Pertanto, requisito essenziale richiesto nella conciliazione in sede sindacale è quello dell’effettiva assistenza che l’associazione sindacale presta al lavoratore. A tal fine, è necessario valutare se, in base alle concrete modalità di svolgimento della procedura, sia stata concretamente attuata quella funzione di supporto del lavoratore che la legge assegna alle organizzazioni sindacali.

Ciò che ha stupito più d’uno – quanto meno tra i pratici del diritto – è la prima parte, quella che prevede la necessità della presenza di una procedura conciliativa nel CCNL. Dico subito che, personalmente, ritengo la sentenza corretta.

Per comprendere i contorni del problema è necessario partire dalla normativa applicabile. L’articolo 2113, ultimo comma, del Codice civile stabilisce che le rinunce e transazioni siglate in sede sindacale in base all’articolo 412 ter del Codice di procedura civile non possono essere impugnate. La norma processuale fa riferimento alle conciliazioni firmate in sede sindacale «con le modalità previste dai contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni sindacali maggiormente rappresentative». Il dato letterale mi sembra sufficientemente chiaro: la combinazione di queste disposizioni consente di ritenere inoppugnabili solo le conciliazioni previste e disciplinate dai contratti collettivi; se il contratto collettivo non regolamenta la procedura di conciliazione (come accade nel caso sottoposto a giudizio del tribunale di Roma e, in generale, nella maggioranza dei comparti produttivi), l’atto firmato dal lavoratore può essere impugnato.

La volontà del legislatore poi è quella di tutelare la parte debole del rapporto. Questa la si tutela non solo con l’effettività dell’assistenza, già dichiarata in più circostanze dalla cassazione, ma anche dal rispetto dei presupposti regolatori: solo se le parti collettive hanno previsto una disciplina ad hoc il sindacalista ha il potere di intervenire come conciliatore. Diversamente l’intervento sindacale non troverebbe fonte in un dato normativo poiché la norma sostanziale (art. 2113 c.c.) rinvia alla norma processuale (art. 412 ter c.p.c.) la quale – dopo la riforma della L. 183/2010 – contempla la possibilità di una conciliazione in sede sindacale. Ma tale possibilità non trova la propria disciplina in detta norma, bensì, in virtù di espresso rinvio, nel CCNL applicabile che può prevedere sedi e modalità di svolgimento della conciliazione sindacale.

Dunque, forse per una inveterata prassi si è spesso continuato a far firmare i verbali di conciliazione davanti a un sindacalista (a volte il primo che passava di lì). Ora, a seguito della sentenza del tribunale di Roma, tale modalità non potrà più proseguire. La conciliazione in sede sindacale è inoppugnabile solo se prevista dal CCNL applicabile. Soluzioni alternative ce ne sono: dalla commissione di conciliazione alle Commissioni di Certificazione. La più attiva nei nostri territori è quella istituita dalla Fondazione dell’Università di Venezia che svolge un ottimo servizio e che non soggiace ai limiti che abbiamo appena individuato. Salvo non si preferisca “correre il rischio” dell’impugnazione nel semestre successivo, cosa tuttavia poco gradita dalle aziende. Ad maiora

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